sabato 15 ottobre 2016

Luigi Pirandello: Vita con percorso letterario - Manuale Tellus di Claudio Di Scalzo







Luigi Pirandello

VITA CON PERCORSO LETTERARIO


Di origini borghesi, dopo aver frequentato le università di Palermo e Roma, Luigi Pirandello (Agrigento, 1867 - Roma, 1936), completò gli studi a Bonn, in Germania. Stabilitosi a Roma e sposata una conterranea proprietaria di alcune zolfare, fu introdotto nell’ambiente letterario romano da Luigi Capuana. Pirandello aveva già esordito come poeta, ma a questo punto si avviò alla narrativa con alcuni romanzi di impianto ancora verista, nei quali però affioravano già quei motivi originali che egli avrebbe sviluppato nei romanzi successivi e nel teatro. La prima opera importante è del 1904: il romanzo Il fu Mania Pascal. In quel tempo lo scrittore era già travagliato da gravi problemi economici e familiari: era avvenuto un tracollo economico, in se­guito al quale la moglie aveva cominciato a dare segni di squilibrio mentale. Divenuto insegnante e collaboratore di vari giornali, Pirandello continuò l’attività letteraria, scrivendo dapprima drammi in dialetto siciliano e quindi in lingua italiana. Dopo Così è (se vi pare) del 1917, che iniziò la fase più creativa del suo teatro, Pirandello proseguì con un’attività molto intensa, ma non sempre assecondato dal successo di pubblico. Negli anni del primo dopoguerra ottenne molti consensi all’estero e di rimbalzo la sua fama si diffuse anche in Italia. Dopo aver aderito al fascismo, più per desiderio di affermazione che per intima convinzione, fu nominato Accademico d’Italia. Nel 1934 ricevette il premio Nobel per la letteratura.

Delle opere teatrali di Pirandello (una quarantina) ricordiamo alcuni capolavori: Il berretto a sonagli, Enrico IV, Sei personaggi in cerca d’autore, Questa sera si recita a soggetto.
L’opera narrativa è segnata da un’abbondante serie di novelle raccolte sotto il titolo Novelle per un anno, e da alcuni romanzi, come il già citato Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila.





Il tema centrale dell’opera di Pirandello – tanto nei romanzi e nelle novel­le, quanto nel teatro – è la condizione di smarrimento, solitudine ed estraneità dell’uomo moderno.
Dopo il crollo della fiducia nella ragione e nel progresso senza limiti di cui si è nutrita la borghesia ottocentesca, l’uomo moderno, privo ormai di sicuri punti di riferimento, «si vede vivere» in preda al caso e al caos. Secondo Pirandello, l’uomo è divenuto vittima della società che egli stesso ha creato e sviluppato in forme sempre più complesse, e nessuna ideolo­gia è capace di rivelargli la sua intima essenza e di fornirgli un filo d’Arian­na che lo aiuti a stabilire un ordine qualsiasi nel caos degli avvenimenti e nei molteplici e contraddittori atteggiamenti che costituiscono la vita quoti­diana di ciascuno.
Pirandello prende atto di questa situazione di crisi senza propositi di alternativa o di denuncia, ma soltanto con la volontà di analizzarne luci­damente le manifestazioni in personaggi sconfitti, disillusi e alienati. La sua analisi è fondata sui seguenti motivi, tipici della visione pirandelliana della vita e dello spirito umano. Schematizziamo.

Contrasto tra “vita” e “forma”. Mentre gli altri esseri vivono senza avere la percezione della loro vita, ad esempio, «l’albero vive e non si sente», l’uomo ha «il triste privilegio di sentirsi vivere», dal momento che avverte il continuo mutamento che avviene in sé e fuori di sé. L’inces­sante cambiamento che costituisce la vita non obbedisce a ritmi e regole catalogabili ma soltanto al caso. L’uomo che tende a fissare in forme precise (cioè in concetti, ideali, valori morali, categorie sociali) il flusso casuale e caotico della vita, non fa altro che procurarsi gravi disil­lusioni. Il contrasto tra ideale e reale, tra la tendenza a ottenere delle certezze e la disillusa constatazione che la vita non si lascia afferrare in alcun modo, si evidenzia drammaticamente nella coscienza dei personaggi pirandelliani nel momento in cui, indotti dal“caso” a riflettere, avverto­no in sé stessi l’insanabile contrapposizione tra le molteplici possibilità di vita, che sembrano esistere in loro, e la forma – cioè quel tipo di vita, quel ruolo sociale, quel carattere – che la società impone a ciascuno come una “maschera”. Ogni uomo, dunque, parafrasando il titolo di un celebre romanzo pirandelliano, è «uno» la società che gl’impone una data “forma” senza la quale non gli sarebbe consentito di avere una vita di relazione; è «centomila» sia per le innumerevoli potenzialità che la vita in movimento sembrerebbe offrigli, sia per i difformi giudizi che di lui si potrebbero esprimere; è «nessuno» per l’impossibilità di dare una qualsiasi definizione della realtà. L’unica possibilità di vivere liberamente le proprie infinite forme strappandosi la maschera imposta dagli altri, è data dalla scelta della solitudine o dalla condizione di pazzia, reale o presunta (come avviene, ad esempio, per il protagonista dell’Enrico IV o per Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila).

Relatività della conoscenza. Dal contrasto irrisolvibile tra “vita” e “forma” deriva in Pirandello la consapevolezza che né l’uomo né la real­tà sono conoscibili. Non è possibile neppure la comunicazione tra gli uo­mini:ciascuno, infatti, giudica necessariamente. dal proprio punto di vista secondo ciò che “ appare”o che sembra apparire, non secondo ciò che “è”, per cui su un medesimo fatto i giudizi sono tanti quante le persone chiamate a giudicare.

Sentimento del contrario. È il principio fondante le della poetica pirandelliana, definito nel saggio “L’Umorismo”, 1908. Pirandello stesso lo spiega con un esempio: se vediamo una vecchia «coi capelli ritinti», «tutta imbellettata e parata d’abiti giovanili», ci mettiamo a ridere, ac­corgendoci che «quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vec­chia rispettabile signora dovrebbe essere». Fin qui siamo a un livello superficiale d’osservazione, all’avvertimento del contrario, che provoca in noi una comicità istintiva. Ma se invece, riflettendo, arriviamo a pensare che quella signora agisce così, forse soffrendo, per rendersi piacevole al marito molto più giovane di lei, non rideremo più come prima perché dal­l’avvertimento saremo passati al sentimento del contrario, cioè alla capacità – ironica, beffarda, ma anche dolorosa – di “sentire”, di cogliere con l’intelligenza le inquietanti contraddizioni della condizione umana.
L’analisi di Pirandello si svolge in modo uniforme per tutto l’arco della la sua vastissima produzione, senza conoscere sostanziali evoluzioni, bensì riproponendosi sempre con rinnovata e prodigiosa capacità d’osservazione in una innumerevole serie di casi umani. Infatti, la sua ideologia pessimi­stica e la tendenza a cogliere, con gusto beffardo e pietoso a un tempo, l’assurdità dell’esistenza in casi paradossali sono già presenti nelle prime opere (i romanziL’esclusa e Il turno), dove si avvertono influssi veristici dai quali lo scrittore si libera con il primo capolavoro, il romanzo Il fu Mattia Pascal.

I personaggi delle opere pirandelliane appartengono alla piccola e me­dia borghesia: professori, impiegati, piccoli professionisti di provincia o comunque di mentalità provinciale, anche quando si sono trasferiti in cit­tà. Gli ambienti nei quali essi si muovono sono case d’affitto, pensioni, salotti con una qualche pretesa d’eleganza. Anche se le vicende si svolgono nella maggior parte dei casi in Sicilia o a Roma, il mondo rappresentato da Pirandello non ha connotazioni storiche o sociali di rilievo. L’unica ecce­zione è il romanzo storico I vecchi e i giovani (1913), che ha per argomen­to la delusione provocata dal Risorgimento presso le nuove generazioni del Meridione. Infatti, l’attenzione dello scrittore è sempre rivolta al dramma che si svolge nella coscienza dell’uomo dei nostri tempi, solo con sé stesso di fronte alla crisi di tutti i valori tradizionali, crisi avvertita con particolare intensità in Italia e in Europa dopo i disastri della Prima Guerra Mondiale.

Pirandello si rivela autore di respiro europeo anche nel contributo originale offerto al rinnovamento del teatro, con la presentazione di azioni che si immaginano tutte da inventare e il cui svolgimento si attua in parte sul palcoscenico, in parte nella platea. Ciò avviene soprattutto nei Sei personaggi in cerca d’autore (1921), e ancora in Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1928), la cosiddetta trilogia del “teatro nel teatro”.





martedì 20 settembre 2016

NATURALISMO E POSITIVISMO. Manuale Tellus di Claudio Di Scalzo



Zola




Claudio Di Scalzo


PANORAMA STORICO-LETTERARIO DEL SECONDO OTTOCENTO (1848-1885)

Dopo il ‘48 si verifica per alcuni decenni uno sviluppo vastissimo della società borghese, mediante il quale trovano realizzazione tante premes­se e possibilità già implicite nelle vicende precedenti; ma nel contem­po, l'apogeo di questa società ne mette in luce anche i conflitti di fondo, le forze antagonistiche che essa stessa nel suo sviluppo si è creata, i motivi di crisi, (Ad esempio lo scontro tra borghesia e proletariato, differenze regionali, le contraddizioni della rivoluzione industriale.)

Nei decenni che vanno dalla restaurazione al 1848, la borghesia si è via via imposta come classe dirigente, e ciò perché e riuscita a frenare le esigenze popolari “troppo spinte” e a dirottare certe situazioni verso soluzioni “moderate”. Si veda ad esempio la rivoluzione parigina del '48, o le Cinque giornate di Milano. Col '48 la borghesia ha, per così dire, superato la prova, diventa classe dominante, da pieno svi­luppo alle sue possibilità e costruisce strutture statali a misura dei suoi interessi (Governo, Magistratura, Polizia, ecc). Ma tutto ciò com­porta una conseguenza, che è un'altra caratteristica fondamentale di que­sto periodo: lo sviluppo del nazionalismo e gli scontri che ne derivano. Infatti i vari organismi nazionali, raggiunta una solidità attraverso l'egemonia della classe borghese, diventati strumento degli interessi economici di questa classe, entrano in conflitto fra di loro, in una gara di supremazia, alla conquista di mercati per l'espansione commercia­le e di prestigio e dì potenza nel quadro politico europeo. Ne deriva una serie di conflitti e di guerre che mutano profondamente quell'asset­to che dal Congresso di Vienna era rimasto pressoché immutato sino al '48. Diamo ora uno sguardo alle singole situazioni nazionali:

IN FRANCIA quel Luigi Bonaparte che nel '48 è stato portato dai voti della borghesia moderata alla presidenza della Repubblica, attua il 2 dicembre 1851 un colpo di stato e, dopo, trasforma la repubblica in Impero ( il “Secondo impero”: 1852-1870) assumendo il nome di Napoleone III. Lo scontro con la Prussia e la sconfitta di Sedan (I870) segneranno il crollo del secondo impero.

IN ITALIA, in conseguenza del fallimento delle iniziative “democratiche” del '48, il processo di unificazione nazionale viene orientato dall'azione diplomatica di Cavour verso una soluzione “moderata”: con una rete di alleanze e di iniziative dall'alto, la monarchia dei Savoia si inserisce nella politica europea. Si arriva cosi alla Seconda guerra di indipendenza (1859) durante la quale il Piemonte può godere dell'allean­za di Napoleone III che però appoggia i movimenti di indipendenza nazio­nale per avere occasione di affermare il ruolo della Arancia nella poli­tica europea ed italiana. Le correnti democratiche del risorgimento però non sono spente e si fanno sentire con la spedizione di Garibaldi in Sicilia (1860): ma l'arrivo delle truppe di Vittorio Emanuele II frena questa iniziativa popolare e la incanala verso una soluzione monarchica.

Con la Terza guerra d’indipendenza (1866) e poi con la conquista di Roma (1870), che segna la fine del potere temporale dei papi, l’unità d'Italia è fatta, ma il nuovo stato avrà gravi problemi da affrontare: pareggio del Bilancio, superamento delle abissali differenze di svilup­po delle varie regioni, unificazione delle disposizioni legislative, lotta contro il Brigantaggio che nasceva dall'opposizione al nuovo stato (fattosi subito odiare con l'aumento delle tasse e la coscrizione obbligatoria), alimentata dai sovrani spodestati, i Borboni. Tutte queste difficoltà erano in gran parte dovute al “peccato origina­le” del Risorgimento, cioè al modo come si era realizzato: Non per iniziativa popolare ma per conquista dei “Piemontesi”, non col coinvolgimento degli interessi di larghe masse popolari,ma sulla spinta dei bisogni di ristretti gruppi.

NATURALISMO E POSITIVISMO

Il periodo che stiamo trattando è caratterizzato da uno straordinario sviluppo delle attività produttive, dei trasporti, dei commerci e poggia tutto sui risultati del progresso tecnico. Non fa meraviglia quindi che anche nelle manifestazioni culturali ed artistiche si riscontri una tendenza alla concretezza e al realismo, una attenzione particolare per i fatti, per i meccanismi sociali, una valorizzazione della scien­za e delle applicazioni tecniche che si dimostrano strumenti sorpren­denti di trasformazione della realtà. Il Positivismo è la corrente filosofica che dà la fisionomia culturale a questo periodo e che ne interpreta e nel contempo ne determina le esigenze e gli atteggiamenti mentali.
In Francia AUGUSTE COMTE col suo Corso di Filosofia Positiva (1830-1842), in Inghilterra STUART MILL con i suoi scritti, CHARLES DARWIN con due celebri opere: L'origine della specie, 1859 e L'origine dell'uomo, 1871, ed HERBERT SPENCER, in Italia ROBERTO ARDIGÒ (1828-1920) sono i principali esponenti di questa filosofia.

Cerchiamo ora di fissare con sommari accenni alcuni canoni fonda­mentali del POSITIVISMO.

I) Sia l'uomo singolo sia l'umanità nel suo complesso passano attraver­so vari momenti, vari stadi, e all'inizio si affidano alle spiegazio­ni religiose, poi a quelle puramente intellettuali e astratte, (l'uomo si chiede i perché delle cose), infine c'è lo stadio POSITI­VO o SCIENTIFICO (l'uomo si chiede come avvengono le cose, cioè cerca le leggi scientifiche) nel quale ci si dedica esclusivamente allo studio e all'osservazione dei fatti, dei fenomeni della realtà.

II) Questo studio può basarsi solo sui metodi scientifici: che sono gli unici strumenti per comprendere i fenomeni e per dare una “base razio­nale all'azione dell'uomo sulla natura”. Per “fenomeni” si intende sia ciò che accade in natura, sia ciò che accade nella società.

III) L' esaltazione della scienza è quindi un cardine del Positivismo e sfocia in quella fiducia nel progresso che sarà un atteggiamento fondamentale di questo movimento. È perfettamente logico che la borghesia nella sua piena affermazione di classe dirigente, sempre più soddisfatta del vertiginoso ampliarsi delle attività produttive, veda nel POSITIVISMO la sua filosofia e nella scienza l'unico strumento capace di liberare tutti dai pregiudizi, dalla miseria, dalla malattia, secondo un programma inarrestabile, desti­nato a raggiungere livelli sempre più alti.

Anche in CAMPO LETTERARIO è possibile riscontrare quelle caratteristiche e quegli orientamenti che abbiamo finora individuato in campo filosofico, cioè: attenzione per i fatti volontà e concretezza di analisi.
Si assiste quindi ad una produzione letteraria che nelle più varie fasi prende i nomi di “Realismo”, “Naturalismo”, “Verismo” (in Italia); ma al di là di queste distinzioni, potremmo usare una definizione più largamente comprensiva e parlare di SCOPERTA DELLA REALTÀ.

Sottolineiamo alcune caratteristiche, che in varia misura, sono presenti in questa produzione (in Francia, in Inghilterra, in Italia):

a) Alle sottili analisi interiori, alle effusioni di complicati e dolen­ti stati d'animo che erano tipici della letteratura romantica e si esprimevano soprattutto nella poesia lirica, subentra ora una rigogliosa produzione di romanzi; si tratta di grandi affreschi di una intera società che viene analizzata e rappresentata in tutti i suoi aspetti e nel complesso intreccio delle varie classi in conflitto fra di loro. Il romanzo come genere letterario non è certo una novi­tà (c'era già stata una certa produzione romanzesca nel '700 in Inghil­terra e in Francia); la novità è invece nell'attenzione che ora l'autore dedica a definire i personaggi nelle loro connotazioni e nelle loro caratteristiche di classe e a studiare comportamenti e sentimenti alla luce della collocazione sociale. I romanzi di BALZAC sono una rappresentazione non di singoli personaggi ma delle varie classi della società francese; FLAUBERT e MAUPASSANT in Francia continueranno su questa strada, mentre DICKENS in Inghilterra mette in evidenza il prezzo di sofferenza e di sfruttamento che l'industrializzazione com­porta, e GOGOL e TUHGHENIEFF in Russia descrivono l'inerzia delle classi dominanti e nel contempo i fermenti di rinnovamento in quella società. Si può concludere, ed è un dato importante, che il romanzo realista, nel suo complesso, proprio quando la società raggiungeva il suo apogeo, ne metteva in luce i limiti, denunziava l'inesorabilità delle leggi economiche che stritolavano i sentimenti, sottolineava l'angustia di certi valori come la produttività, il benessere, il progresso.

b) Diventa ora oggetto di rappresentazione anche la realtà più dimessa e più giornaliera in quanto il NARRATORE REALISTA sente la dignità e la tragicità di ciò che è umile, quotidiano. Mentre l'artista roman­tico amava rappresentare protagonisti eccezionali per intensità di sentimenti e per complicati dissidi interiori, ora invece un insieme di fattori (vicende storiche, posizioni filosofiche ecc.) spinge l’artista a non escludere alcun aspetto della realtà, a rappresentarla nella sua interezza. E così c’è posto per i contadini e per lo spaccapietre di Courbet o per l’avarizia tragica di papà Grandet nell’Eugenia Grandet di Balzac o per la vita anonima di una povera serva in Un cuo­re semplice di Flaubert o per i minatori e gli alcolizzati nei roman­zi di Zolà o per un'umile famiglia di pescatori travolta dalle avversità nei Malavoglia di Verga.

Questa attenzione alla vita quotidiana fa sì che il narratore, ed è quasi una inevitabile conseguenza, circoscriva e limiti il suo campo di rappre­sentazione a ciò che conosce direttamente, che può osservare e studiare da vicino. Ed ecco allora, nella narrativa realistica, l'attenta rappre­sentazione di un ambiente circoscritto nello spazio e nel tempo, coi suoi costumi e la sua atmosfera: ecco la Normandia di Flaubert e Maupassant, la Sicilia di Verga, la Lombardia di De Marchi. È' il cosiddetto “REGIONALISMO” tipico di tanta narrativa realistica dell'ottocento.

IL VERISMO

Il “Verismo” si sviluppa in Italia soprattutto in seguito alla conoscenza delle idee nuove sul romanzo che provengono dalla Francia. In questo paese, infatti, quella tendenza all'analisi concreta e immediata della realtà, ha dato luogo al Romanzo naturalista e lo scrittore ÉMILE ZOLA caposcuola del Naturalismo, affermava che il romanzo è la forma lette­raria più efficace per i tempi moderni, e che essa deve interpretare i fatti umani e sociali con metodo scientifico e fotografare la vita della gente, soprattutto in quelle periferie industriali e operaie dove maggiormente imperversano le malattie, i vizi (alcoolismo e prostituzione) e tare ereditarie. Zola aggiungeva anche che lo scrittore deve osservare un rigido criterio di IMPERSONALITÀ, cioè di estraniamento dalle vicen­de e dalle situazioni rappresentate. Con ciò lo scrittore francese au­spicava UN ROMANZO SCIENTIFICO, uno spaccato di vita descritto col di­stacco del medico quando fa una diagnosi o redige un referto. Il Verismo in Italia è diffuso da LUIGI CAPUANA e GIOVANNI VERGA. Con questi due autori il naturalismo francese subisce adattamenti e modifi­che sia per il diverso atteggiamento di questi autori sia per la situa­zione politica e sociale italiana diversa da quella francese. Della poe­tica naturalistica i veristi italiani rifiutano il criterio della ridu­zione dell'opera letteraria a esercizio di carattere scientifico. Senza riserve, invece, viene accettata la teoria dello Zola dell'IMPERSONALITÀ nell'arte. Lo scrittore deve rappresentare, quasi fotografare, la realtà cosi come essa è, spogliandosi completamente della propria ideologia, delle proprie vedute personali e deve far parlare e agire i personaggi così come parlano e agiscono nella realtà. Sino a quel momento nella tecnica romanzesca gli scrittori (si pensi al MANZONI) hanno alternato parti dialogate a parti espositive o narrative, nelle quali i fatti sono stati esposti dal punto di vista dell'autore, che talora si è anche mes­so in primo piano per giudicare il comportamento dei suoi stessi personaggi. Secondo la nuova poetica dell'Impersonalità nell'Arte, queste intromissioni del narratore non sono più tollerate,in base al criterio che il romanzo deve sembrare «Essersi fatto da sé» (Verga) senza serbare alcun punto di contatto col suo autore. Va ricordato inoltre che i Veristi a differenza dei loro colleghi d'oltralpe si muovevano in una situazione politico-sociale molto diversa. Mentre in Francia il proletariato industriale è organizzato e costituisce una forza politica, (ed i romanzi dello Zola saranno ambientati nelle città e fra il proletariato), in Italia all'indomani dell'Unità d'Italia, il nuovo Regno è sostanzialmente ancora in una fase pre-industriale (la maggioranza dei lavoratori è impiegata nell'agricoltura) con la Questione Meridionale che emerge in tutta la sua drammaticità. Ecco allora che gli scrittori veristi, Capuana e Verga (quest'ultimo in maniera geniale) rappresenteranno le miserie economiche e culturali delle plebi abbandonate a se stesse, i drammi dei primitivi e degli infelici. 



venerdì 8 gennaio 2016

"Lavandare" di Giovanni Pascoli illustrate da "lavandaie sulle Mura" di Maria Modesta Paolini


Maria Modesta Paolini: "Lavandare sulle Mura di Lucca", 1975
olio su cartoncino 39 x 51
Collezione privata





Giovanni Pascoli 
LAVANDARE

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l'aratro in mezzo alla maggese.




da Myricae



giovedì 7 gennaio 2016

Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa con Laforgue che imita







GIACOMO LEOPARDI

La sera del dì di festa

con Laforgue che imita 


Leopardi è un autore talmente ben occultato da star sotto agli occhi di tutti. Nella manualistica scolastica così come negli scaffali delle librerie familiari. Decenni di diffusione edulcorata nella scuola e di preoccupati smussamenti cattolici e moderati – che a partire da Tommaseo e Manzoni addebitarono la sua riflessione pessimistica al petto a piccione e alla gobba – hanno “silenziato” quel tris che la Musa gli aveva messo fra le mani come splendido gioco di scrittura. E che Giordani riconobbe al volo: «Sommo filologo, sommo poeta, sommo filosofo». Certamente è vero che Leopardi con Timpanaro e Severino è stato posto dentro una cornice filosofica con esiti saggistici fondamentali, ma questi contributi non raggiungono i giovani studenti e i lettori. Credo che il MANUALE TELLUS possa ovviare in parte a questa impotenza (non proponendo sunti di letture critiche che esulano dalla sua missione divulgativa) diffondendo fra studenti e lettori le poesie leopardiane che sono diventate una specie di brivido ri-scritto da simbolisti e poeti come Jules Laforgue e Pessoa.

Prendiamo la poesia “La sera del dì di festa”. Compare nei Canti. Il poeta la compose nel 1820. Gli studiosi delle sue carte non sono riusciti a scoprire se la scrisse con i peschi in fiore o con le prime foglie autunnali verso il suolo. La poesia, questo è certo, fu pubblicata con altri idilli (Come l’ “Infinito”, “Alla luna”, “Il sogno”, “La vita solitaria”, il “Frammento XXXVII”) nel 1825 col titolo “La sera del giorno festivo”. Poi col titolo e forma definitiva nella seconda edizione dei Canti. Ed era il 1835. L'edizione da me proposta è quella einaudiana nella NUE, Giacomo Lepardi, Canti, commento di Cesare Garboli, e nel 2005 riproposta dal quotidiano La Repubblica nella collana “Magnifica”.



                      LA SERA DEL DÌ DI FESTA

                      Dolce e chiara è la notte e senza vento,
                      e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
                      posa la luna, e di lontan rivela
                      serena ogni montagna. O donna mia,
                      già tace ogni sentiero, e pei balconi
                      rara traluce la notturna lampa:
                      tu dormi, che t’accolse agevol sonno
                      nelle tue chete stanze; e non ti morde
                      cura nessuna; e già non sai né pensi
                      quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
                      Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
                      appare in vista, a salutar m’affaccio,
                      e l’antica natura onnipossente,
                      che mi fece all’affanno. A te la speme
                      nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
                      non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
                      Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
                      prendi riposo; e forse ti rimembra
                      in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
                      piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
                      al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
                      quanto a viver mi resti, e qui per terra
                      mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
                      in così verde etate! Ahi, per la via
                      odo non lunge il solitario canto
                      dell’artigian, che riede a tarda notte,
                      dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
                      e fieramente mi si stringe il core,
                      a pensar come tutto al mondo passa,
                      e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
                      il dì festivo, ed al festivo il giorno
                      volgar succede, e se ne porta il tempo
                      ogni umano accidente. Or dov’è il suono
                      di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
                      de’ nostri avi famosi, e il grande impero
                      di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
                      che n’andò per la terra e l’oceàno?
                      Tutto è pace e silenzio e tutto posa
                      il mondo, e più di lor non si ragiona.
                      Nella mia prima età, quando s’aspetta
                      bramosamente il dì festivo, or poscia
                      ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
                      premea le piume; ed alla tarda notte
                      un canto che s’udia per li sentieri
                      lontanando morire a poco a poco,
                      già similmente mi stringeva il core.






Prima di trattare della ri-scrittura che il poeta simbolista francese Jules Laforgue fece di questa poesia operiamo una necessaria traccia didascalica.

Leopardi accosta in un calco di a-temporalità dell’io poetico l’angoscia di quand’era adolescente dopo il giorno di festa con quella vissuta da adulto; angosce che si addipanano nel filo della continuità tra delusione e spasmo. Però questo intreccio temporale rileva anche una differenza ancor più negativa rispetto all’oggi: la sofferenza-delusione dell’adolescente era affidata all’istinto nutrito di inconsapevolezza, quella dell’uomo-poeta è argomentata nel consegnarsi alla con-sapevolezza che miseria e caducità orbitano sopra le cose umane.





Jules Laforgue (1860-1887) una delle voci più significative del simbolismo di lingua francese ri-scrisse la poesia leopardiana – testimoniando così la penetrazione del recanatese in area europea, (che nessun manuale scolastico ricorda) – nella breve raccolta Le sanglot de la terre (1811 ma pubblicata postuma assieme ad altre poesie) spingendo ancor più in avanti l’esistenzialismo di questi versi.



         SOIR DE CARNEVAL

         Paris chahute au gaz. L’horloge comme un glas
         Sonne une heure. Chantez ! dansez! la vie est brève,
         Tout est vain, - et, là-haut, voyez, la Lune rêve
         Aussi froide qu’aux temps où l’Homme n’était pas.

         Ah ! quel destin banal! Tout miroite et puis passe,
         Nous leurrant d’infini par le Vrai, par l’Amour;
         Et nous irons ainsi, jusqu’à ce qu’à son tour
         La terre crève aux cieux, sans laisser nulle trace.

         Où réveiller l’écho de tous ces cris, ces pleurs,
         Ces fanfares d’orgueil que l’Histoire nous nomme,
         Babylone, Menphis, Bénares, Thèbes, Rome,
         Ruines où le vent sème aujourd’hui des fleurs?

         Et moi, combien de jours me reste-t-il à vivre?
         Et je me jette à terre, et je crie et frémis
         Devant les siècles d’or pour jamais endormis
         Dans le Néant sans cœur dont nul dieu ne délivre!

         Et voici que j’entends, dans la paix de la nuit,
         Un pas sonore, un chant mélancolique et bête
         D’ouvrier ivre-mort qui revient de la fête
         Et regagne au hasard quelque ignoble réduit.

         Oh ! la vie est trop triste, incurablement triste!
         Aux fêtes d’ici-bas j’ai toujours sangloté:
         «Vanité, vanité, tout n’est que vanité!»
         –Puis je songeais: où sont les cendres du Psalmiste?




               SERA DI CARNEVALE

               Parigi impazza al lucore del gas. Simile a una campana a morto
               Rintocca un’ora. Cantate! Folleggiate! La vita è corta,
               Tutto è inutile, - e aguzzate gli occhi, lassù, la Luna sogna
               Scostante come ai tempi in cui l’uomo non c’era in giro.

               Ah! Che destino banale! Tutto brilla e poi svanisce,
               Adescandoci d’infinito con il Vero e l’Amore maiuscoli;
               E così andremo, finché madre terra
               Esploderà come altri pianeti senza lasciare segno.

               E al sottoscritto quanti giorni restano da vivere?
               Mi butto per terra, grido, rabbrividisco.
               Davanti ai secoli ritenuti d’oro per sempre sonnacchiosi
               Nel Nulla senza cuore dal quale non c’è un Dio che ci salvi.

               Ed ecco che nella notturna quiete ascolto
               Un trepestio sonoro, un sempliciotto canto melanconico
               D’un operaio di ritorno dalla festa che cerca ubriaco
              Qualche derelitto cantuccio.

              Oh! la vita è troppo triste, incurabilmente triste!
              Nelle feste comandate e terrene ho sempre singhiozzato!
              «Vanità, vanità, tutto è vanità!»
              –E poi pensavo tra me: dove saranno finite le ceneri
              del cantore dei salmi?

              (Traduzione di Claudio Di Scalzo)







La poesia di Leopardi, e la ri-scrittura di Laforgue, sono versi abitati da corpi. Ho parlato di esistenzialismo a proposito di questi versi e il mio rimando va a L’Essere e il Nulla di Sartre. infatti la voce che parla nella sera del dì di festa scopre che può trascendere la situazione reale, il mondo, affidandosi all’immaginazione, la donna pensata dormiente quieta nelle sue stanze, ma questo sforzo di libertà oltre l’esperienza reale conduce il soggetto che ne fa uso, Leopardi e ogni lettore che in esso si identifichi, ad una opacità vischiosa e assurda del presente. Di fatto alla nausea, a sentirsi esclusi perché “di troppo” rispetto alla vita. Conoscere il pavimento, l’urlo, sulle mattonelle fredde, il fremito ne è diretta conseguenza. Sarà poi la voce di Laforgue a dirci che nella metropoli parigina la coscienza coincide con il Nulla, un nulla che non deriva dal mondo circostante se non per abbagli, è l’uomo che lo porta in se stesso. Il solitario a Recanati, il solitario irridente nella via parigina, dimostrano con Sartre che «l’esistenza precede l’essenza». L’uomo inventa se stesso con l’esistere, non è definito da nessuna essenza o Dio prestabilito, è, soltanto quanto diventa, ciò che sceglie di essere. Libertà di coscienza totale. Libertà che però impone di proiettarsi nel nulla della notte festiva, nel riconoscere la volatilità del tempo: e l’angoscia che ne turba la scansione. Non è tranquillizzante Leopardi. La sua è una riflessione imperniata sul singolo.

Laforgue nella “Sera di carnevale” sa come ogni mito ci adeschi, sia esso l’Amore o l’Ideologia, o la Norma. Il Nulla che abbiamo nel cuore, nell’essere, non può togliercelo alcun dio. Possiamo soltanto illuderci – e anche Leopardi parlerà di Illusioni (che tanti progressisti hanno voluto vedere come un programma positivo di riscatto) – e innalzare valori che inevitabilmente l’esperienza scoprirà come convenzionali e inutili. Addirittura gli imperi che avevano inventato massicce mitologie e eserciti sono stati inghiottiti con corpi-pensieri-mura dal tempo. Ma il pavimento che conosce l’orma del corpo fremente angoscia rivela al soggetto la nuda realtà, la gratuità delle cose, il loro non senso, e insieme la scelta per affrontare il fondamento della propria libertà nel Nulla che abita la coscienza. E magari sorridere mestamente anche dei salmi, di chi ne cantò l’eccezionalità, mentre svelavano con l’Ecclesiaste la vanità del tutto. E qui Laforgue riprende un’altra poesia di Leopardi: “A se stesso”. Dal celebre verso finale: «E l’infinita vanità del tutto».

Fondamentale per aprire un’impronta interpretativa in Leopardi è la questione dello sguardo e del guardare in rapporto all’amore; in Laforgue manca questo tratto esistenzialistico. Il corpo nella sera festiva viene scoperto come una cosa abbandonata fra le cose: i mobili della stanza, la lampada accesa e poi spenta, le coperte. Ma il corpo secondo Sartre ha anche un’altra possibilità: quella di essere conosciuto con lo sguardo come “corpo vissuto”. Guardare e essere guardati. Affidarsi alla corporeità altrui. La ragazza a Recanati si è affidata a questa scoperta e gioco. Leopardi ha rinunciato anche a ciò. La riconoscibilità è negata. In “A Silvia” questo tratto del “guardare” è ancora più esplicito. «Non ti molceva il core/ La dolce lode or delle nere chiome,/ or degli sguardi innamorati e schivi;/ né teco le compagne ai dì festivi/ ragionavan d’amore». Ma ogni sguardo rende cosa fra le cose. Anche i corpi. Anche l’amore che possono emanare. Leopardi chiuso in casa senza andare alla festa paradossalmente si salva da un altro annichilimento, da una nuova limitazione alla sua libertà. Cosa che invece non fa l’operaio che torna ubriaco a casa. «Esisto per me come conosciuto da altri a titolo di corpo» (Sartre). La “vergogna” di Leopardi a girare per Recanati viene prodotta dallo sguardo altrui che riduce la persona a corpo-cosa e a conti fatti ad essenza dei rapporti interpersonali. Dunque anche l’amore non riscatta l’assurdità di vivere. L’amore non apre all’altro o all’altra perché il tentativo di “farsi amare” dal partner è il mascheramento del tentativo di asservire la libertà altrui. Il protagonista de “La sera del dì di festa” è pertanto in salvo. (CDS 1999)



giovedì 26 novembre 2015

Giovanni Verga: L'Amante di Gramigna. Con lettera a Salvatore Farina. Cura Claudio Di Scalzo






Giovanni Verga

L’AMANTE DI GRAMIGNA

a Salvatore Farina

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi — interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contraddittori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, — e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.




Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certoGramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i proprietarii non s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po’ troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo,Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all’intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.
Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu «candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.
La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le dieci dita delle mani: dell’oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. «Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramignanon vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse:
— La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi —.
Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, «Candela di sego» era rimasto a bocca aperta.
Che è, che non è, Peppa s’era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì, ch’era un uomo! — Che ne sai? — Dove l’hai visto? — Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. — Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! —
Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.
Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch’essa, come lui.
Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi.
Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia.
Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.
— Ha fatto due ore di fuoco! — dicevano; — c’è un carabiniere morto, e più di trecompagni d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato —.
Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.
Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia — non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli — lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata.
Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell’alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.
— Che vuoi? — le chiese. — Che vieni a far qui?
Ella non rispose, guardandolo fisso.
— Vattene! — diss’egli, — vattene, finché t’aiuta Cristo!
— Adesso non posso più tornare a casa, — rispose lei; — la strada è tutta piena di soldati.
— Cosa m’importa? Vattene! —
E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso:
— Dunque? ... Sei pazza? ... O sei qualche spia?
— No, — diss’ella, — no!
— Bene, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è così —.
Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé:
— Queste erano per me —.
Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich’ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:
— Vuoi venire con me?
— Sì, — accennò ella col capo avidamente, — sì —.
E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d’acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.
Una notte c’era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramignabalzò in piedi a un tratto, e le disse:
— Tu resta qui, o t’ammazzo com’è vero Dio! —
Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.
— Ferma! ferma! —
E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.
—  È finita! — disse lui. — Ora mi prendono —; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo.
Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono addosso tutti in una volta.
Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell’oro quanto Santa Margherita!
La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.
Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch’era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.
Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l’avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov’era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano «lo strofinacciolo della caserma». Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.






martedì 24 novembre 2015

Gustave Courbet. Funerali a Ornans. Sintesi divulgativa. A cura di Claudio Di Scalzo





Gustave Courbet (1819 - 1877)
Sintesi Divulgativa 
a cura di Claudio Di Scalzo

Fu Ornans, la piccola cittadina dello Jura, ai confini tra Francia e Svizzera, a dare i natali a Gustave Courbet, uno dei grandi innovatori, forse il più audace, della pittura ottocentesca. Siamo nel 1819, precisamente il 10 giugno. Gustave è primogenito di Eleonor Regis, un agiato proprietario terriero che nel 1831 lo iscrive al Seminario di Ornans per poi inviarlo sei anni dopo al Collegio Reale di Besançon. Fin dai primi anni il giovane Gustave, si mette in evidenza, oltre che per il carattere particolarmente indisciplinato, per l'attitudine al disegno. Ebbe grande importanza per la sua formazione l'amicizia con Max Bouchon, cornpagno di collegio, che lo portò verso il socialismo in politica e il realismo nell'arte. Nel 1840 si stabilisce a Parigi dove abbandona gli studi di diritto per dedicarsi interamente alla pittura: frequenta gli atelier di vari artisti, ma soprattutto analizza e copia i capolavori del Louvre. Sono ancora in auge in quegli anni i canoni della pittura romantica e Courbet vi si adegua: specialmente nei numerosi autoritratti, nei quali il pittore trasfigura per l'appunto romanticamente la propria immagine: (Le Desespéré, L'hom-me blessé, Le Violoncelliste). Vale la pena comunque di ricordare che l'autoritratto fu un'esigenza che accompagnò tutta la vicenda artistica del pittore francese (con un’assiduita pari al solo Rembrandt), testimoniando la forte componente narcisistica del suo carattere. 




Nel '44 Courbet espone per la prima volta una propria tela al Salon parigino, che costituiva il tempio della cultura artistica ufficiale.

Ci avviciniamo così agli anni caldi del '48 che furono determinati per l'evoluzione del suo pensiero e della sua arte: cade il trono di Luigi Filippo e sale al potere la II Repubblica.

Courbet frequenta la Brasserie Andler, tempio della cultura non ufficiale, dove entra in amicizia con Baudelaire, Corot, Daumier e altre interessanti personalità: proprio da questi incontri nascono le idee base del Realismo di cui l'artista si fa agguerrito paladino. Nel ‘49 inizia la gigantesca tela Un funerale a Ornans, (Parigi, Museo d’Orsay), vero e proprio manifesto della pittura realista. I contadini e i borghesi di Ornans, tutti i volti noti all'artista, sfilano sulla tela con la loro umile ma autentica dignità. "È il Romanticismo che viene sepolto" disse lo stesso Courbet riferendosi al quadro. In effetti d'ora in poi la sua pittura sarà rivolta unicamente al reale: nei ritratti, nei seducenti nudi femminili come nei meravigliosi paesaggi, non si tratta più di rievocare visioni fantasistiche o simboliche, quanto piuttosto di portare sulla tela, per farla rivivere in intensità e pienezza, la realtà. Soltanto la realtà che l'occhio vede, e niente di più. 





Furono in molti a non capirlo e a criticarlo violentemente, in particolare nell'ambiente del Salone parigino, che non poteva sopportare di vedere il popolo, la gente di paese, quella realtà che a Courbet, anche in quanto socialista, stava più a cuore, elevata a soggetto di un’opera d'arte. La polemica toccò il culmine durante l'Esposizione Universale del '55, quando la giuria si rifiutò di esporre il Funerale a Ornans e L'atelier del pittore, (Parigi, Museo d’Orsay), che Courbet aveva appena completato. Nel primo dipinto, la più grande tela dipinta dall'artista (3,61 X 5,98 cm), il pittore si era ritratto in atto di dipingere un paesaggio, circondato dagli amici che frequentavano abitualmente il suo studio (“la storia morale e fisica del mio atelier” come egli stesso definì l'opera). Il rifiuto convinse Courbet ad allestire, in polemica coll'Esposizione, il Padiglione del Realismo, dove presentò 40 suoi quadri e 4 disegni. Proseguendo con ostinazione e coraggio la strada intrapresa, nel ‘57 espose al Salone Ragazze sulle rive della Senna (Parigi, Petit Palais), dove ritrasse, cogliendo il dramma della loro stanca umanità, due donne di facili costumi sdraiate sulla riva del fiume. Il quadro non fece che gettare olio sul fuoco delle critiche; ma a coloro che lo rimproveravano non solo per la "volgarità" del soggetto ma anche per la mancanza di carica ideale dell'opera, il pittore rispondeva enunciando i principi della sua estetica: “Considero un uomo come considero un cavallo, un albero, un oggetto qualsiasi della natura”.





Nel 1867 Courbet inviò all'Esposizione Universale quattro quadri ma, come dodici anni prima, allestì contemporaneamente una mostra personale. La sua produzione in questi ultimi anni verte soprattutto sui ritratti e sui paesaggi, tra cui spiccano le marine e le scogliere dipinte a Etrétat nell'estate del ‘69. L'anno seguente, dopo aver clamorosamente rifiutato, insieme a Daumier, il conferimento della Legion d'onore, Courbet si trova coinvolto nei drammatici avvenimenti che si abbattono sulla Francia: il 31 agosto Napoleone III è sbaragliato dai Prussiani a Sedan e il 18 settembre inizia l'assedio di Parigi. L'artista entra a far parte della Comune ed è eletto presidente della commissione per la protezione delle opere d'arte. Dopo la caduta della Comune e le sanguinose repressioni, viene giudicato ingiustamente responsabile dell'abbattimento della Colonna Vendôme, viene condannato a sei mesi di reclusione, durante la quale continua a dipingere, eseguendo il celebre Autoritratto a Sainte-Pélagie (il carcere parigino). 





Perseguitato dalla giustizia anche dopo la scarcerazione, (è condannato a ricostruire la colonna a sue spese), l’artista fugge e si rifugia in Svizzera a La Tour-de-Peilz, nei pressi di Vevey. Qui dipinge ancora numerosi paesaggi, tra cui le meravigliose visioni del Castello di Chillon. Da lungo tempo malato, Gustave Courbet muore il 31 dicembre 1877, lasciando in eredità ai pittori che lo seguiranno, tra cui gli espressionisti, un sentimento della realtà e della natura di profondità e verità straordinarie.